Il Trentino, da sempre noto per la sua solidarietà, il suo associazionismo attivo e un volontariato vibrante, sta attraversando un momento di svolta epocale, seguendo un trend negativo che purtroppo si vede estendere su tutta l’Italia. La crisi della partecipazione, dell’associazionismo e del volontariato è una realtà palpabile che sta mettendo alla prova le fondamenta stesse di questa comunità.
Ho avuto l’opportunità di discuterne con Davide Moro, consulente di fundraising e comunicazione sociale per gli Enti del Terzo Settore e consulente specializzato per SHERPA Srl, Spin-off dell’Università degli Studi di Padova, un professionista che porta con sé una profonda comprensione delle dinamiche intrinseche al volontariato.
Che cosa intendiamo per fundraising?
Il Fundraising rappresenta l’insieme di tutte quelle tecniche e strumenti (ad esempio gli eventi, le lettere che riceviamo a casa, l’sms solidale ecc.) che le organizzazioni del non profit possono attivare per garantire la sostenibilità, in primis economica, delle progettualità dell’ente stesso. Il fundraising non si limita però solo alla dimensione economica, ma punta a stimolare il dono a 360 gradi in tutte le persone che hanno un legame con la buona causa dell’organizzazione. Dono che può concretizzarsi in donazioni di denaro, ma anche di tempo (quindi le attività di volontariato), di beni e servizi, di competenze o di relazioni. Per questo motivo all’interno del mondo di chi si occupa di raccolta fondi in Italia, si sta iniziando in alcuni contesti a non identificare più i professionisti con il termine di fundraiser bensì come ‘promotori del dono’.
I dati del Censimento Permanente delle Istituzioni Non profit realizzato da ISTAT hanno evidenziato in Italia un calo del 15,7% del numero di volontari tra il 31 dicembre 2021 e il dato del 2015. Prima di provare a capire un po’ meglio questa tendenza, facciamo un passo indietro. Cosa intendiamo per volontariato?
“Il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà”. In questa definizione sono riportati diversi elementi chiave: “comunità e bene comune”, “personale”, “spontaneo”, “gratuito”, “senza fini di lucro”, “solidarietà”. Se invece adottiamo il punto di vista del fundraising, anche se sarebbe meglio parlare in questo caso di people raising, i volontari sono dei donatori di tempo.
Nella definizione normativa si dice che tale attività può essere svolta “anche per il tramite di un ente del Terzo settore”, come mai questa precisazione?
Spesso il senso comune ci porta a immaginare il volontario come colui che presta la propria attività e il proprio tempo all’interno delle organizzazioni del Terzo settore, di organizzazioni. Questa però è solo una visione parziale. Prendiamo ad esempio la più recente alluvione dell’Emilia Romagna in cui i telegiornali ci mostravano, giorno dopo giorno, migliaia di persone che dotate di stivali ai piedi e pala in spalla sono arrivate da tutta l’Italia per aiutare le comunità colpite dalla calamità. Questo è un classico esempio di volontariato destrutturato e disintermediato perché si basa sulla libera iniziativa e organizzazione dei singoli. Volendo però si può fare anche un ulteriore passo avanti: se consideriamo il volontario come un donatore di tempo, possiamo tranquillamente affermare che tutti noi nella quotidianità, in modi differenti, doniamo parte del nostro tempo a familiari, amici, colleghi ma anche a persone della comunità con cui entriamo in relazione. Si potrebbe quindi dire che tutti noi siamo molto più volontari di quanto ne abbiamo contezza. Ed è proprio il fenomeno del volontariato destrutturato e disintermediato che potrebbe offrire una prima chiave di interpretazione del calo di volontari rilevato dal Censimento. Sempre più si assiste a esperienze di volontariato al di fuori delle organizzazioni non profit, fenomeno che sfugge tra le maglie della rilevazione di Istat.
Ma quindi i giovani non fanno più volontariato o cercano nuove forme di coinvolgimento?
Ormai da diversi anni, con un’intensità crescente, stiamo assistendo alla diffusione di una nuova modalità di immaginare, ricercare e vivere l’esperienza di volontariato nelle organizzazioni del Terzo settore da parte dei giovani. Affermare che le fasce più giovani abbiano perso interesse per le cause sociali e il volontariato rischia di diventare una generalizzazione che non fotografa correttamente la situazione attuale. Oggi, da un lato, ricercano esperienze che gli permettano di generare un cambiamento concreto e che li veda nel ruolo di attori protagonisti. Pensiamo ad esempio al movimento internazionale dei Friday for Future che hanno portato in strada milioni di giovani per lottare per il proprio futuro. Dall’altro lato, molti giovani cercano delle esperienze di volontariato che permettano loro di mettere al servizio della causa le competenze specifiche maturate durante i percorsi della scuola dell’obbligo e dell’università.
Con un mondo del lavoro così flessibile e liquido come quello attuale, l’esperienza come volontario non può rappresentare un valore aggiunto da spendere nel proprio curriculum?
Sicuramente oggi per molti giovani l’esperienza di volontariato o di servizio civile rappresenta un’importante palestra per sperimentare le competenze e muovere i primi passi “nel mondo del lavoro”. Come è facile intuire, questa dinamica genera l’aspettativa che l’esperienza di volontariato non si fermi a semplici attività a prevalente componente manuale, ma le organizzazioni del Terzo settore sono chiamate a progettare e offrire progettualità in grado di far emergere il potenziale individuale di ogni volontario. A complicare ulteriormente la complessità che gli enti sono chiamati a governare, considerando che nella maggior parte dei casi la governance viene espressa da persone con un’età media superiore ai 60-70 anni, a un diverso modo di vivere il rapporto con l’organizzazione dei giovani: tendono a legarsi a più realtà contemporaneamente e rimanerci non più per gran parte della vita ma solo per alcuni anni o fino al raggiungimento dell’obiettivo che si sono prefissati.
Spesso infatti si sente i volontari più anziani lamentarsi che le organizzazioni vivono difficoltà nel ricambio generazionale e nel coinvolgimento dei giovani. Perché secondo te?
Si lega a quanto detto appena sopra, soprattutto nelle medie e piccole organizzazioni, che rappresentano il tessuto più vivo della società civile. I direttivi solitamente sono composti da pochi volontari storici, con un’età media avanzata, che dedicano anima e corpo per portare avanti le attività, ma così facendo tendono, consapevolmente o inconsapevolmente, a centralizzare su di sé l’operatività, tendendo a replicare anno dopo anno quello che si è sempre fatto con forte spirito di dedizione alla causa e faticano ad aprirsi ai giovani, soprattutto alle loro aspettative ed esigenze.
E quali potrebbero essere delle azioni da compiere per spezzare questo circolo vizioso?
Ce ne sarebbero diverse, due meritano particolare attenzione visto quanto è stato già detto. La prima consiste nel riconoscere e valorizzare le competenze specifiche e individuali dei volontari. I volontari non devono essere considerati dei tuttofare impiegabili al bisogno, bensì ognuno è portatore di una propria specializzazione e vocazione. Questo obbliga i direttivi a (ri)mettere al centro l’ascolto, la capacità di riconoscere queste sfumature individuali e pensare percorsi di valorizzazione e crescita. La seconda riguarda invece la necessità di riscoprire e concedere fiducia. Benché possano pensare e agire in modo a volte difficilmente comprensibile per le generazioni successive, la maggior parte dei giovani in realtà possiede le capacità e gli strumenti per interpretare correttamente il contesto in cui si muove e individuare ciò che può essere maggiormente in grado di generare un reale impatto.
Il volontariato è anche dono, come abbiamo visto all’inizio, ma quanto è riconosciuto come tale dalle organizzazioni?
Direi troppo poco. Le organizzazioni dovrebbero imparare a valorizzare e riconoscere maggiormente il dono di tempo. Solitamente si tende a dedicare molte energie e attenzione alla cura della relazione tra i donatori di denaro, mentre il dono dei volontari viene quasi considerato un qualcosa di “scontato e dovuto”. Purtroppo tendiamo sempre a dimenticarci che oggi la risorsa più scarsa con cui dobbiamo fare i conti non sono i soldi ma il tempo.
Per concludere, possiamo dire che ci sia un calo di volontari come fotografa l’Istat?
Sicuramente stiamo assistendo a una diminuzione dei volontari all’interno delle organizzazioni non profit, questo però non vuol dire che le persone abbiano smesso di fare volontariato. Stiamo vivendo un periodo particolarmente complesso, pensiamo solo alla pandemia e al conflitto in Ucraina che sono diventati catalizzatori di processi trasformativi della società e delle comunità locali che erano già avviati da anni. Non bisogna mai dimenticare che il dono è parte della nostra essenza da sempre, prima ancora che fosse introdotto lo scambio economico come dimensione prevalente. Si potrebbe quindi affermare che oggi abbiamo in parte perso, non la capacità di donare, anche il tempo, bensì la capacità di riconoscerla e di valorizzarla come tale. A dimostrazione di ciò possiamo pensare all’ampia attivazione spontanea di donatori e volontari che si osserva in occasione di eventi improvvisi, spesso drammatici. Pensiamo ad esempio ai volontari che si attivano spontaneamente in caso di calamità come alluvioni e terremoti oppure ai giovani che in epoca di Covid si sono attivati per fare la spesa e le commissioni evitando che le persone più anziane fossero obbligate a uscire di casa.
In conclusione, mentre le statistiche potrebbero indicare una diminuzione dei volontari all’interno delle organizzazioni non profit, non dobbiamo dimenticare che il desiderio di donare e mettersi al servizio del nostro prossimo è radicato nell’essenza umana. Le nuove sfide e le trasformazioni che stiamo vivendo stanno semplicemente spingendo il volontariato in nuove direzioni, aprendo la strada a forme di partecipazione diverse ma altrettanto significative. Il Trentino, con la sua ricca storia di solidarietà, è destinato a superare anche questa sfida e a prosperare in nuovi modi anche grazie all’aiuto di persone come Davide, che credono fermamente nell’importanza del dono come fondamento della relazione umana.